La Filosofia di Galimberti

Di Lilio Testa

Affascinato dalla imponente caratura intellettuale di uno dei più grandi filosofi italiani contemporanei, Umberto Galimberti, decido, in una sera di febbraio, di acquistare i biglietti, per me e famiglia, per la partecipazione ad uno dei suoi eventi culturali. Ancona: la città dove ha avuto sede l’incontro, presso il Teatro delle Muse, e così non abbiamo perso l’occasione di visitare buona parte della regione di appartenenza. Abbiamo alloggiato in un hotel a Pesaro, a ridosso delle sponde di Baia Flaminia, e da qui abbiamo effettuato i dovuti, ma non forzati, spostamenti. È sorprendente come in quelle zone dell’Italia centro-occidentale ci sia quasi una perfetta simbiosi fra uomo e natura; tutt’altro si potrebbe dire di queste parti. Al di fuori dei grandi centri abitativi, si estendono, maestosi e apparentemente infiniti, oliveti, vigneti e terre rigogliose, il cuore verde e visibilmente pulsante d’Italia. Tornando a noi: alle 21:00, dopo gli opportuni controlli, abbiamo avuto la possibilità di prendere posto a teatro, e piano piano altri spettatori curiosi lo hanno gremito totalmente. Il tema intorno al quale è ruotato il discorso del Professor Galimberti, che si autodefinisce “uomo greco”, era L’io e il Noi: il primato della relazione. Il discorso ha preso avvio da un assunto: l’uomo è un essere plurale condannato all’infelicità a causa dell’individualismo insito nella cultura occidentale. E così il filosofo ha affrontato un percorso ironico, preciso e disinvolto insieme ad un attento pubblico che si lascia trasportare dalla sua carismatica saggezza ed energia. Innanzitutto, per educare l’uomo a pensare da una prospettiva collettiva, devono essere seguite e raggiunte delle specifiche “tappe sociali”, dal sapore quasi rituale, attraverso cui l’individuo può acquisire consapevolezza in tal senso. Ad esempio, in Mali (paese visitato a scopo di ricerca dall’intellettuale durante gli anni della sua docenza di Antropologia culturale presso la allora neonata Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Ca’ Foscari di Venezia), in alcune tribù indigene, i giovani, superata la soglia dell’adolescenza, vengono allontanati radicalmente dalla società per poi poter tornare solo dopo un anno. Tribù in un certo modo primitive, agli occhi degli occidentali, uomini spaventosamente tecnologici, in cui, durante precise cerimonie di gruppo il capotribù proferisce al suo popolo ciò che è giusto o sbagliato, sacro o profano, totem o tabù. Certo il risultato sarebbe drammatico, addirittura catastrofico se applicato al nostro modus vivendi, ma comunque questo resta un esempio molto calzante del concetto di selezione meritocratica e di formazione del cittadino. Non è un caso che sia stata allora tirata in ballo a più riprese la cultura greca, che vide in sé stessa la nascita della πόλις (città-stato), organismo sociopolitico proprio dell’orizzonte del “Noi”, i cui valori e insegnamenti purtroppo sono andati quasi perduti. Uno di questi è di vitale importanza: l’etica del limite. Che significa? Ce lo ha spiegato il filosofo: <<Se sono uno scultore di medio livello e ho la presunzione di scolpire come Fidia, ecco che preparo la mia rovina, come palesemente spiegano le immagini del Mito>>. Senso del limite che l’uomo greco avvertiva anche nei riguardi della morte e quindi della vita stessa; smantellato però dalla promessa di eternità professata dal cristianesimo, che è stata una delle cause principali del cosiddetto “tramonto dell’Occidente”, titolo peraltro iconico di una delle opere del saggista lombardo. Nel suo spiegare l’individuo si è spaziato dall’origine della parola e del pensiero razionale alla follia indispensabile per conoscere l’io più profondo, perché la verità sta nella polivalenza e non nella univocità che nasce dalla ragione. La ragione è solo un metodo, uno schema interpretativo utile a decifrare la realtà circostante. Per creare (in greco ποιείν) l’artista ha immancabilmente bisogno di calarsi nella sua dimensione irrazionale, di entrare in contatto con l’irrazionale, operazione che spesso può portare ad estreme conseguenze. Come scrisse Nietzsche: <<Se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l’abisso scruterà dentro di te.>> Irrazionalità polivalente che i Greci peraltro associavano alle divinità. Il dio greco per eccellenza, Zeus, è ad un tempo solo serpente, pioggia e toro; viene meno a questo punto uno dei principi fondanti della logica aristotelica, quello di non contraddizione. Quindi l’uomo greco aveva piena conoscenza di questi meccanismi, ambigui sotto un certo punto di vista, e sapeva di possedere una parte irrazionale, ereditata dagli dèi, non a caso Socrate parla di δαίμων (demone), una sorta di voce interiore, derivante direttamente dal divino, che lo mette in guarda dal compiere determinate azioni. Si è passato, di conseguenza, all’Amore che è «una facoltà cognitiva irrazionale», ha detto Galimberti. «Identità di genere e orientamento sessuale: non sono questi i temi rivelanti, come avevano già ben capito i greci. Ciascuno è una legione. Una legione in cui ci sono anche il bambino e il saggio e c’è l’altro genere, che altrimenti non riusciremmo a vedere. È normale allora il fenomeno attualissimo della fluidità, perché i giovani stanno capendo di esser non soltanto uomini o donne ma di esser uomo e donna insieme, in un rapporto di 60/40 a seconda del genere di partenza>>. Platone descrisse questa concezione in maniera perfetta nel Simposio, uno dei suoi dialoghi più famosi ambientato a casa di Agatone, un tragediografo di cui non è rimasto nulla. I partecipanti a questo banchetto sono tutti grandi esponenti della società ateniese del tempo: Fedro (esperto di retorica), Pausania (l’amante di Agatone, da ricordare il fatto che i simposi erano cerimonie  in gran parte elitarie scandite anche da pratiche omoerotiche), Erissimaco (medico) Aristofane (originalissimo commediografo) ,Socrate (padre della maieutica) e  Alcibiade (comandante della flotta, giovanissimo, poco più che ventenne perché nel mondo antico l’uomo nasceva anzitutto per imbracciare la lancia, per difendere la patria e qui Galimberti si è scagliato contro l’odierna tecnologia medica che non allunga la vita ma solo lo sfacelo fisiologico dell’individuo). Dopo una calorosa accoglienza da parte del padrone di casa ognuno di loro, su invito di Erissimaco, terrà un discorso che ha per oggetto un elogio di Eros. Affascinante è quello di Aristofane: all’origine del mondo, gli uomini erano differenti dagli attuali, dal momento che risultavano essere la fusione di due esseri in uno. Inoltre, essi erano di tre generi: il maschile, il femminile e l’androgino, che partecipa del maschio e della femmina. La loro forma era inoltre circolare: quattro mani, quattro gambe, due volti su una sola testa, quattro orecchie, due organi genitali e tutto il resto come ci si può immaginare. Questa natura doppia è però stata spezzata da Zeus, il quale fu indotto a tagliare a metà questi esseri per la loro tracotanza (due di questi esseri, Efialte ed Oto, avevano osato scalare il monte Olimpo per sfidare gli immortali e ribaltare il loro giogo), al fine di renderli più deboli ed evitare che attentassero al suo potere. E così Apollo, calzolaio degli dèi, ricuciva le parti separate e <<tirando da ogni parte la pelle su ciò che oggi è chiamato ventre … manteneva una sola apertura e la stringeva fortemente nel mezzo del ventre, il che appunto è chiamato ombelico.>> Ma da questa divisione in parti nasceva negli umani il desiderio di ricreare la primitiva unità, tanto che le “parti” non facevano altro che stringersi l’una all’altra, e così morivano di fame e di torpore per non volersi più separare. Zeus allora, per evitare l’estinzione umana, inviò fra gli uomini Eros affinché, attraverso il ricongiungimento fisico, essi avessero potuto ricostruire l’unità perduta, così da provare piacere (e riprodursi) e potersi poi dedicare alle altre incombenze cui devono attendere. Racconto suggestivo che fa riflettere su come l’uomo greco sia stato consapevole di essere solo una metà forzatamente divisa, una parte del tutto, <<un coccio di un piatto anticamente rotto>>. Ha concluso il grande filosofo dicendo che i Greci, <<il popolo più intelligente mai esistito>>, ci avevano visto lungo e che non può esistere uno senza due, non può esistere individuo senza relazione anche perché, senza discostarci dall’opera platonica, <<se uno, con la parte migliore del suo occhio (la pupilla) guarda la parte migliore dell’occhio dell’altro, vede sé stesso>>. Non bisogna coltivare troppo l’Io, che può portare ad insopportabili forme di egocentrismo e a terribili infelicità, ma pensare più al Noi, in senso comunitario ed insegnarlo, con molta attenzione e cura, già ai bambini che hanno una capacità ricettiva potentissima. Questa è la lezione di vita dell’illuminato ed illuminante Professor Umberto Galimberti, un uomo che ha vissuto in nome dell’indagine filosofica e che, proprio in virtù di ciò, ha compreso a fondo l’essenza più problematica della nostra contemporaneità.

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