I Diritti della Donna dal Codice Civile del 1865 ai Nostri Giorni – Prima Parte

Di Nicoletta Martone.

La figura femminile, nel panorama del diritto, è stata dal 1865 ad oggi la materia maggiormente oggetto di cambiamento.

La donna, difatti, nel Codice civile postunitario del 1865 era una “figura giuridica” relegata al ruolo di custode delle mura domestiche per la cura dei figli e la tenuta della casa.

L’essere femminile, per nascita, non godeva né dell’elettorato passivo né tantomeno di quello attivo ed era parificata, nel godimento dei diritti agli analfabeti, agli interdetti, ai detenuti e ai falliti.

Alle donne era, inoltre, inibita qualunque iniziativa economica privata eccezion fatta per le ipotesi in cui avessero preventivamente ricevuto l’autorizzazione paterna o/e maritale: tali autorizzazioni erano necessarie per qualsiasi atto amministrativo di beni materiali anche appartenuti alla donna, giustificata dal sostanziale disconoscimento alla stessa della capacità di amministrare alcun tipo di bene.

A seguito di frammentari – ma sostanzialmente vani – tentativi di equiparazione tra uomini e donne, ad opera di politiche socialiste fortemente avversate dal potere spirituale reggente, è soltanto con la Grande Guerra che le donne iniziano ad avere un ruolo determinante e soltanto perché sostituivanogli uomini chiamati al fronte nei posti di lavoro – nelle more- vacanti.

Con la conclusione del primo conflitto mondiale e precisamente con la legge del 17 luglio n.1176dell’anno 1919, finalmente,le donne vengono ammesse all’esercizio di tutte le professioni nonché “autorizzate”a ricoprire tutti gli impieghi.

Di fatto veniva, quindi, abrogata l’autorizzazione maritale per le suddette attività ma le donne restavano, comunque, escluse dalle professioni afferenti ai poteri pubblici giurisdizionali, politici o militari.

Un revirement in senso totalmente conservatore avvenne con l’avvento del ventennio fascista e, in particolar modo, con il regio decreto n. 1054 del 6 maggio 1923 meglio noto come Riforma Gentile, e successivamente con il regio decreto n. 2480 del 9 dicembre 1926.

Tutte le donne furono escluse dalle cattedre di lettere e filosofia nei licei e dalla professione di dirigenti o presidi di istituto.

La riforma scolastica istituiva, peraltro, i licei femminili, che avevano “per fine di impartire un complemento di cultura generale alle giovinette che non aspirano né agli studi superiori né al conseguimento di un diploma professionale”ed a ciò si aggiunga che i Licei femminili, non potevano avere più di due corsi completi, vietando eventuali classi aggiunte.

Successivamente con la legge 221 del 1934 furono limitate notevolmente le assunzioni femminili, escludendo tout court le donne dai bandi o riservando loro pochi posti, mentre con decreto-legge del 5 settembre 1938 fu fissato un limite del 10% all’impiego di personale femminile negli uffici.

La farraginosità della macchina burocratica del fascismo raggiunse l’apice nel regio decreto 989/1939 con cui si precisò quali impieghi statali potessero essere assegnati alle donne.

Segnatamente le donne potevano svolgere servizi di dattilografia, telefonia, stenografia, servizi di raccolta e prima elaborazione di dati statistici; servizi di formazione e tenuta di schedari; servizi di lavorazione, stamperia, verifica, classificazione, contazione e controllo dei biglietti di Stato e di banca, servizi di biblioteca e di segreteria dei Regi istituti medi di istruzione classica e magistrale; servizi delle addette a speciali lavorazioni presso la Regia zecca.

 

Nell’articolo 4 del decreto 989/1939 il Guardasigilli indicò –  neanche tanto velatamente – quali fossero i lavori “particolarmente adatti” alle donne: annunciatrici addette alle stazioni radiofoniche; cassiere (limitatamente alle aziende con meno di 10 impiegati); addette alla vendita di articoli di abbigliamento femminile, articoli di abbigliamento infantile, articoli casalinghi, articoli di regalo, giocattoli, articoli di profumeria, generi dolciari, fiori, articoli sanitari e femminili, macchine da cucire; addette agli spacci rurali cooperativi dei prodotti dell’alimentazione, limitatamente alle aziende con meno di dieci impiegati; sorveglianti negli allevamenti bacologici e avicoli; direttrici dei laboratori di moda.

Con la conclusione del Secondo Conflitto mondiale e con l’entrata in vigore del Codice civile la situazione, sostanzialmente, restava immutata.

Le norme, infatti, assicuravano la totale sottomissione della donna all’interno del matrimonio (con una pedissequa riproduzione dell’articolo 130 del Codice civile del 1865) con l’obbligo reciproco alla coabitazione, fedeltà e assistenza (art 144) che richiama(va)l’abrogato art. 131 “la moglie segue la condizione civile del capofamiglia di cui assume il cognome, obbligandosi ad accompagnarlo dovunque egli crede opportuno di fissare la sua residenza”.

Sempre nel primo libro del Codice civile dedicato alle Persone e alla Famiglia, come da tradizione romanistica gaiana della tripartizione (personae – res- actiones), si definivano i doveri dei genitori mediante l’obbligo di mantenere e educare e istruire la prole, nell’ottica di un’educazione e istruzione “conformi ai principi della morale e al sentimento nazionale fascista”.

La disparità tra i generi è evidente nell’istituto della separazione che distingue i tradimenti del marito, ritenuti più lievi, di quelli dalla moglie. Nel corpus normativo si nomina ancora la dote e gli uomini avevano l’esclusiva titolarità della patria potestà fino alla maggiore età del figlio. La madre poteva sostituire il coniuge soltanto in caso di impedimento.

 

In questo primo approccio alla materia, possiamo concludere che vi è nel codice del 1942 una innegabile continuità con il suo predecessore del 1865: ma se la famiglia precedente era una famiglia liberale di maschi proprietari, quella delineata nelle norme del 1942 presenta elementi di tradizione sociale permeati di ideologia fascista dello Stato……(segue)

 

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